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Santi del 17 Aprile

Il mio Santo > I Santi di Aprile

*Sant’Acacio di Militene - Vescovo (17 Aprile)

+ 435 circa
Martirologio Romano:
A Melitene nell’antica Armenia, Sant’Acacio, vescovo, che, per aver difeso la retta fede nel Concilio di Efeso contro Nestorio, fu ingiustamente deposto dalla sua sede.   L’anacoreta Sant’Eutimio narra che Acacio era lettore presso la chiesa di Melitene in Armenia.
Nato da una ricca famiglia ed educato da insigni maestri e letterati, il vescovo Otrea lo nominò
precettore dello stesso Eutimio, poi autore della “passio” del Santo.
Prima del Concilio di Efeso (431), al quale prese parte militando fra gli antinestoriani, Acacio fu elevato all’episcopato.
Il santo vescovo era legato da amicizia a Nestorio, ma era però evidente come le posizioni di Cirillo d’Alessandria fossero dettate da piena aderenza all’ortodossia piuttosto che dall’antica rivalità fra la sede di Alessandria e quelle di Costantinopoli ed Antiochia.
Acacio ebbe comunque anche da ridire circa le ambigue posizioni tenute da Giovanni di Antiochia.
Acacio fu prescelto insieme ad altri sette per essere legato presso l’imperatore Teodosio II e riferirgli circa le mene degli antiocheni, che a loro volta non esitarono a respingere e rivolgere le medesime accuse allo stesso Acacio.
In realtà questi mantenne sempre una chiara opposizione alle teorie nestoriane e, per aver partecipato alla consacrazione del successore di Nestorio alla sede costantinopolitana, Giovanni di Antiochia lo fece deporre da Melitene.
Quest’ultimo si riconciliò infine con Cirillo d’Alessandria, ma Acacio mantenette una posizione di aperta intransigenza. Verso il 435, l’ex-vescovo di Melitene continuava a lamentare la velenosa sopravvivenza dell’eresia nestoriana, ufficialmente tramontata e decise di combattere Teodoro di Mopsuestia, appoggiato da Rabbula di Edessa, inviando lettere ai vescovi d’Armenia circa la condotta da tenere.
Pare che comunque il santo non partecipò alle controversie monofisite. Secondo Filartete, vescovo di Cernicov, Acacio sarebbe morto nel 435, ma probabilmente anche più tardi, ma in ogni caso prima del 449, quando salì sulla cattedra episcopale di Melitene il suo successore Costantino. Nel 449 al concilio di Melitene Sant’Acacio fu commemorato quale “nostro padre e nostro dottore”.

(Autore: Fabio Arduino - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant’Acacio di Militene, pregate per noi.

*Beata Caterina (Kateri) Tekakwitha (17 Aprile)

Osserneon (Auriesville), New York, 1656 - Caughnawaga, Canada, 17 aprile 1680
Kateri (Caterina) Takakwitha è la prima pellerossa d'America beata (1980).
La sua breve vita (1656-1680) fu segnata dalla diversità.
Era, infatti, figlia di una coppia mista: padre irochese pagano e madre algonchina cristiana. Poi venne sfigurata dal vaiolo.
Battezzata ad Albany da missionari francesi, scappò in Canada per sfuggire alle ire dei parenti pagani. Qui visse nella preghiera. Santa giovane, è stata protagonista alla GMG di Toronto (2002). (Avvenire)

Martirologio Romano: A Sault nel Québec in Canada, Beata Caterina Tekakwitha, vergine, che, nata tra gli Indiani nativi del luogo, fu battezzata nel giorno di Pasqua e, benché perseguitata da molte minacce e da vessazioni, offrì a Dio quella purezza che quando non era ancora divenuta cristiana si era già impegnata a conservare.
Kateri è la prima Beata pellerossa d’America a salire agli onori degli altari, primo fiore d’innocenza cristiana. Nacque presso Fort Orange, odierna Albany nel 1656 da genitori di due etnie diverse, il padre irochese pagano e la madre algonchina cristiana.
Nel 1660 scampò all’epidemia di vaiolo che però le lasciò il volto sfigurato e una grave menomazione alla vista, segni che le procurarono una vita sociale difficile fra la sua gente.
Rimasta ben presto orfana fu presa con sé da uno zio con l’incarico di aiutare la moglie nel governo della casa, il suo nome Tekakwitha le fu dato perché significa “colei che mette le cose in ordine”. Negli Stati Uniti è ricordata il 14 luglio. Giunta in età da marito respinse proposte di matrimonio, nel 1675 alcuni missionari cattolici francesi del Canada, giunsero nel suo villaggio, la loro conoscenza e la religione che professavano, l’affascinarono al punto che circa un anno dopo ricevé nel giorno di Pasqua del 1676 il santo Battesimo, le fu imposto il nome di Kateri (Caterina).
Per sfuggire alle ire dello zio pagano dovette riparare nella Missione di San Francesco Saverio a Sault presso Montreal, dove ricevé la Santa Comunione e iniziò una vita di preghiera e straordinaria pietà.
Senza trascurare le funzioni religiose e gli obblighi verso la famiglia che l’ospitava, Kateri si isolava spesso nella foresta a pregare, recitava il santo Rosario al mattino nel grande freddo del Canada, girando intorno alla propria campagna coltivata a mais, completando le sue orazioni nella piccola cappella del villaggio. Il 25 marzo 1679 fece voto di perpetua verginità, sottoponendosi a pesanti penitenze. Distrutta dalla malattia e dai patimenti, morì il 17 aprile 1680 a soli 24 anni; dopo la sua morte scomparvero dal viso i segni del vaiolo. É stata beatificata il 22 giugno 1980 da Papa Giovanni Paolo II.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Kateri Tekakwitha, pregate per noi.

*Beata Chiara Gambacorti - Domenicana (17 Aprile)
Firenze (?), 1362 - Pisa, 17 aprile 1420

Originaria del potente casato mercantile dei Gambacorti o Gambacorta, che nel Trecento sono diventati per due volte signori in Pisa; nasce nel 1362 forse a Firenze. È conosciuta con il nome di Tora. Già da bambina viene inclusa nei progetti politici e finanziari del padre, che nel 1374 la dà in sposa a un giovane di famiglia importante, Simone Massa.
Ma resta vedova tre anni dopo. Dopo aver incontrato a Pisa nel 1375 Caterina da Siena decide di ritirarsi presso le monache Clarisse.
Ma non diventerà una di loro, ostacolata dalla famiglia. Entrerà più tardi nel monastero domenicano di Santa Croce, dove prenderà il nome di suor Chiara. Sarà poi madre abbadessa, e farà della sua comunità domenicana un centro di diffusione del movimento riformatore nell'Ordine.
I beni dei Gambacorti le servono per farne anche un centro di accoglienza per ogni sorta di poveri. Un giorno battono alla sua porta la moglie e le figlie dell'uomo che ha ucciso suo padre e i suoi fratelli. Troveranno piena accoglienza. Morirà, acclamata santa, nel 1420. Nel 1830, Pio VIII ne ha confermato il culto come Beata.  (Avvenire)

Martirologio Romano: A Pisa, beata Chiara Gambacorti, che, ancora giovane, rimasta vedova del marito, su esortazione di santa Caterina da Siena, fondò qui il primo monastero domenicano di stretta osservanza e, perdonati gli assassini del padre e dei suoi fratelli, governò le consorelle con prudenza e carità.
Forse il suo nome originario è Teodora oppure Vittoria. Ma tutti la chiamano Tora. È nata nel potente casato mercantile dei Gambacorti o Gambacorta, che nel Trecento sono diventati per due volte signori in Pisa; poi, per due volte, hanno perduto la signoria, e alcuni anche la vita. Altri sono stati banditi per anni dalla città, e tra essi c’era Pietro Gambacorti, padre di Tora, nata nel 1362 forse a Firenze.
Ma non sappiamo con certezza dove si trovasse in quel momento la famiglia; o se fosse già ritornata a Pisa, dove nel 1369 Pietro si sarebbe impadronito del potere.
Già da bambina, Tora viene inclusa nei progetti politici e finanziari del padre, che nel 1374 la dà in sposa a un giovane di famiglia importante, Simone Massa: e lei ha dodici anni. Ma Simone
muore tre anni dopo, sicché in casa Gambacorti c’è ora una vedova quindicenne. La quale però si nega risolutamente a ogni altro disegno matrimoniale del padre, perché vuole scegliersi un futuro seguendo i consigli di Caterina da Siena. L’ha incontrata a Pisa nel 1375, in primavera e poi in autunno. Più tardi, dopo la morte del marito, riceve sue lettere che la spingono a farsi suora; e, anzi, già le danno suggerimenti pratici di comportamento quotidiano come religiosa: «E guarda che tu non perda il tempo tuo (...), ma sempre esercita il tempo o coll’orazione o colla lezione [lettura] o con fare alcuna cosa manuale, acciocché tu non cada nell’ozio». Su questa spinta, Tora decide di ritirarsi presso le monache Clarisse, ma non è ancora una di loro.
E non lo diventerà, perché la famiglia reagisce duramente alla sua iniziativa: i fratelli la portano via con la forza dal monastero, e per alcuni mesi la tengono in una sorta di prigionia domestica. Ma non serve. Ha deciso, e i suoi si rassegnano a vederla entrare nel monastero domenicano di Santa Croce. Qui Tora veste l’abito religioso e prende il nome di suor Chiara.
È il tempo in cui papa Gregorio XI, tallonato da Caterina, lascia Avignone per ritornare stabilmente in Roma (gennaio1377). Pietro Gambacorti, padrone di Pisa, lo accoglie solennemente durante la sosta a Livorno. E intanto fa costruire in Pisa un monastero nuovo per la figlia, che sarà dedicato a san Domenico.
Non solo: vorrebbe anche poter ricevere un’altra volta in città Caterina da Siena. Lei non può più accettare, è ammalata; ma trova il tempo di scrivergli, con belle parole di gratitudine. E con un avviso bene in chiaro: sappia il signore di Pisa che è tempo per lui di “correggere” vita e comportamenti: «Non indugiate, che il tempo è breve e il punto della mortene viene, che non ce n’avvediamo».
Caterina muore nel 1380. Dodici anni dopo c’è in Pisa un’altra congiura contro i Gambacorti, appoggiata dai Visconti di Milano: e Pietro viene assassinato con i figli Benedetto e Lorenzo.
Nel monastero, suor Chiara diventa madre abbadessa, e fa della sua comunità domenicana un centro di diffusione del movimento riformatore nell’Ordine.
I beni dei Gambacorti le servono per farne anche un centro di accoglienza per ogni sorta di poveri. E un giorno battono alla sua porta la moglie e le figlie dell’uomo che ha ucciso suo padre e i suoi fratelli. E da quel momento il monastero di Chiara diventa anche la loro casa.
Per le sue monache, Chiara è già santa da viva. E nel giorno della morte, invece del Requiem, le loro voci intonano il Gloria. Il suo corpo si trova ancora nel suo monastero. Nel 1830, il pontefice Pio VIII ne ha confermato il culto comebeata.

(Autore: Domenico Agasso)

Giaculatoria - Beata Chiara Gambacorti, pregate per noi.

*San Donnano e Compagni - Martiri (17 Aprile)
Martirologio Romano:
Nell’isola di Eigg nelle Ebridi al largo della Scozia, Santi Donnáno, abate, e cinquantadue compagni monaci, uccisi con il fuoco o con la spada dai pirati mentre celebravano la solennità della Pasqua.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Donnano e Compagni, pregate per noi.

*Santi Elia, Paolo e Isidoro - Martiri di Cordova (17 Aprile)
† Cordova, 17 aprile 856

Martirologio Romano: A Córdova nell’Andalusia in Spagna, santi martiri Elia, anziano sacerdote, Paolo e Isidoro, monaci di ancor giovane età, uccisi durante la persecuzione dei Mori per aver professato la fede cristiana.
Ne dà notizia Eulogio di Cordova con queste parole: "Il sacerdote Elia, già anziano e oriundo della provincia di Lusitania, ed insieme i monaci Paolo ed Isidoro, ancora giovani, soffrirono il martirio dopo aver confessato la fede".
Il martirio ebbe luogo a Cordova il 17 aprile 856, data in cui vengono commemorati dal Martirologio Romano.
I corpi, sospesi per alcuni giorni al patibolo, furono poi gettati nel fiume Guadalquivir. Usuardo, che nell'858 aveva visitato Cordova, li iscrisse nel suo Martirologio.

(Autore: Juan Francisco Rivera Recio – Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Santi Elia, Paolo e Isidoro, pregate per noi.

*Beato Enrico Heath (Paolo di Santa Maddalena) - Sacerdote e Martire (17 Aprile)
Scheda del Gruppo cui appartiene:
“Beati Martiri di Inghilterra, Galles e Scozia" Beatificati nel 1886-1895-1929-1987”

Peterborouyh, Inghilterra, 1599/1600 - Tyburn, Londra, Inghilterra, 17 aprile 1643
Nacque nel 1599 da famiglia protestante.
Lui stesso divenne ministro del culto e rimase convinto nella fede fino a quando una folgorante conversione lo portò al cattolicesimo.
Decise quindi di diventare sacerdote ed entrò a far parte dell’Ordine di San Francesco (Frati Minori Recolletti) col nome di Paolo di Santa Maddalena.
Condusse anche una vita molto austera, ricca di privazioni e di penitenze, dedito alla preghiera e alla predicazione.
Il 7 aprile 1642 venne arrestato e si cercò di farlo tornare alla sua antica fede.
Enrico rimase fermo nella sua scelta e rifiutò senza esitare di abiurare. Venne quindi condannato a morte e la sentenza venne eseguita barbaramente, fu prima impiccato e poi straziato al Tyburn nel 1643. Beatificato il 22 novembre 1987 da Papa Giovanni Paolo II.

Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, Beato Enrico Heath, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori e martire, consegnato al carnefice a Tyburn sotto il re Carlo I solo perché sacerdote.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Enrico Heath, pregate per noi.

*Beato Giacomo da Cerqueto - Eremiti di Sant'Agostino  (17 Aprile)

Martirologio Romano: A Perugia, Beato Giacomo da Cerqueto, sacerdote dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che offrì un esempio di serena sopportazione delle infermità.
Il Beato Giacomo da Cerqueto (PG) nacque a Cerqueto (comune di Marsciano, in Umbria), verso l’anno 1284 dalla famiglia Cinti. Vestì l’abito agostiniano a Perugia e rifulse per ubbidienza, pazienza e spirito di pietà.
Nell’Ordine agostiniano la figura del beato Giacomo è stata tramandata ed è tutt’ora ricordata come religioso di «regolare osservanza, rigorosa astinenza, assidua orazione, illibata verginità e la sua sapienza».
Gli storici dell’Ordine gli attribuiscono, tra gli altri, un fatto portentoso, che ricalcano i Fioretti di San Francesco. Stava un giorno pronto per la Messa, quando il superiore gl’ingiunse di far tacere le rane che, gracidando smoderatamente in uno stagno presso il convento, disturbavano
la quiete e la devozione dei suoi confratelli agostiniani. Il Beato, tracciato un gran segno di croce, ordinò loro di star zitte. E le rane ammutolirono. Questo racconto viene riportato dallo storico agostiniano contemporaneo, Giordano di Sassonia nel libro Vitas fratrum.
Morì a Perugia, ultra ottantenne, nel 1367, mentre stava pregando davanti all’altare della Vergine.
Il Beato Giacomo vissuto da santo riscosse subito un grande culto pubblico che fu confermato da Papa Leone XIII il 10 giugno 1895.
Il 21 aprile 1956 il corpo del beato, che giaceva da secoli nella chiesa di Sant’Agostino di Perugia, fu traslato a Cerqueto.
Il beato Giacomo fu uno di quei numerosi agostiniani che nel primo secolo dell’Ordine vissero l’ideale con entusiasmo ed estrema coerenza.
Nel nuovo messale agostiniano del 2012 la memoria del Beato Giacomo si celebra il 31 ottobre, mentre la Chiesa universale lo ricorda il 17 aprile.

(Autore: P. Bruno Silvestrini, OSA - Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giacomo da Cerqueto, pregate per noi.

*Beato Giacomo Won Si-bo - Martire (17 Aprile)

Scheda del Gruppo a cui appartiene:
"Beati Martiri Coreani" (Paolo Yun Ji-chung e 123 compagni) - Senza data (Celebrazioni singole)

Hongju, Corea del Sud, 1730 – Cheongju, Corea del Sud, 17 aprile 1799
Giacomo Won Si-bo abbracciò il cattolicesimo in età avanzata e osservò con attenzione tutto quello che gli venne insegnato della nuova fede. Dopo aver rischiato l’arresto nel 1791, accrebbe la propria formazione grazie al confronto con altri credenti.
Incarcerato nel corso di una nuova persecuzione, morì per le conseguenze delle torture il 17 aprile 1799, a sessantanove anni. Inserito nel gruppo di martiri capeggiato da Paolo Yun Ji-chung, è stato beatificato da papa Francesco il 16 agosto 2014, nel corso del viaggio apostolico in Corea del Sud.
Giacomo Won Si-bo nacque a Hongju, nel distretto di Chungcheong, nell’attuale Corea del Sud, in una famiglia di ceto umile. A circa sessant’anni, tra il 1788 e il 1789, aderì al cattolicesimo insieme a suo cugino Pietro Won Si-jang.
Di carattere gentile, onesto e allegro, osservò fedelmente gli insegnamenti della Chiesa fin dai primi tempi della sua conversione: digiunava ogni venerdì, devolveva le sue sostanze ai poveri e provò a diffondere il Vangelo viaggiando.
All’esplosione della persecuzione Sinhae nel 1791, molti cattolici vennero ricercati e messi in carcere. Avvisato da alcuni amici, Giacomo scappò, mentre Pietro venne arrestato e ucciso dopo molte torture. Quando il cugino seppe della sua sorte, fu molto dispiaciuto per aver perso un’occasione per diventare martire e s’impegnò ancora di più nella pratica religiosa. Si legò in particolare ad alcuni fratelli nella fede: Lorenzo Pak Chwi-deuk, Pietro Jeong San-pil e l’ufficiale dell’esercito Francesco Bang.
Nel 1795, incontrò il missionario cinese padre Giacomo Zhou Wen-mo, che era arrivato clandestinamente in Corea l’anno prima, e domandò il Battesimo. Il sacerdote, saputo che aveva una concubina, glielo negò: lui, appena tornò a casa, la congedò.
Due anni dopo la persecuzione Jeongsa imperversò in tutta la regione e Giacomo venne arrestato. Nonostante le ripetute torture presso l’ufficio governativo di Deoksan, non smise di professare la sua fede: «Praticherò la mia religione cattolica per servire il Signore e salvare la mia anima». Venne quindi trasferito a Hongju e, successivamente, ricondotto a Deoksan per venire nuovamente picchiato: gli vennero, tra l’altro, spezzate le gambe.
Nel 1799, il governatore ordinò che Giacomo venisse condotto al quartier generale dell’esercito a Cheongju.
Il giorno in cui lasciò Deoksan, sua moglie, i loro figli e gli amici lo seguirono in lacrime, ma lui disse: «Per servire il Signore e salvare le anime non dobbiamo seguire gli istinti umani. Se sopportiamo tutti i dolori, saremo ricompensati dalla beatitudine d’incontrare il nostro Signore Gesù Cristo e la sua Santa Madre Maria. Se voi restate qui, il mio cuore s’indebolirà. Potrei non essere in grado di perseverare nella fede e commetterei una grave follia verso Dio. Per favore, tornate a casa».
Arrivato a Cheongju, Giacomo incontrò altri cattolici, tra i quali Francesco Bae Gwan-gyeom, coi quali condivise le sue sofferenze. L’ufficiale in capo del quartieri fece tutto il possibile per condurlo a tradire Dio, ma senza riuscirci.
Le ulteriori torture, aggiunte a quelle che gli avevano già spezzato gli arti inferiori, lo portarono alla morte il 17 aprile 1799 (13 marzo del calendario lunare); aveva sessantanove anni.
Si racconta che, al momento della sua fine terrena, il suo corpo abbia emesso uno straordinario bagliore e che cinquanta famiglie, che avevano assistito alla scena, abbracciarono la fede cattolica.
Giacomo Won Si-bo, inserito nel gruppo di martiri capeggiato da Paolo Yun Ji-chung (del quale fanno parte anche i già citati Pietro Jeong San-pil, Lorenzo Pak Chwi-deuk, Francesco Bang, Francesco Bae Gwan-gyeom e padre Giacomo Zhou Wen-mo), è stato beatificato da papa Francesco il 16 agosto 2014, nel corso del viaggio apostolico in Corea del Sud.

(Autore: Emilia Flocchini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giacomo Won Si-bo, pregate per noi.

*Sant'Innocenzo di Tortona - Vescovo (17 Aprile)
Martirologio Romano: A Tortona in Piemonte, Sant’Innocenzo, Vescovo.
In quella che oggi è chiamata Valle Sant’Innocenzo, a pochi km da Tortona presso Rocca Grue, sorgevano all’inizio del IV secolo alcune ville di campagna, lungo il “flumen Coluber” l’attuale torrente Grue, appartenenti a nobili famiglie del patriziato tortonese.
Una di queste, villa Floriaca, apparteneva alla famiglia cristiana dei Quinzio ed era luogo abituale di preghiera e di rifugio nelle persecuzioni, grazie anche all’altolocata posizione dei proprietari, forse appartenenti alla classa senatoria, e alla tacita compiacenza dei prefetti romani di Dertona.
Quinzio con la moglie Innocenza, nobildonna lucchese, e il figlio Innocenzo, furono validi protettori dei cristiani tortonesi, finché nell’ultima tremenda persecuzione, scatenata dall’imperatore Diocleziano, anch’essi soccombettero.
Il vescovo di Dertona san Giuliano e il suo diacono san Malliodoro, vennero arrestati a Villa Floriana; Giuliano fu decapitato fuori di Porta Ticinese sulla via per Viqueria, Malliodoro riuscì a nascondersi, mentre Innocenzo ventiduenne venne imprigionato e i suoi beni di famiglia confiscati: correva l’anno 303 e la Chiesa tortonese veniva squassata fin nelle fondamenta, come mai era avvenuto dai tempi della sua fondazione e la successione dei Vescovi si interruppe per quindici anni. Con la pace di Costantino e la fine delle persecuzioni nel 313, i cristiani rialzarono il capo e a Dertona tornò il vescovo nella persona del diacono Malliodoro, ordinato dal vescovo di Milano san Materno nel 318.
Nel frattempo Innocenzo si recò a Roma per riottenere dall’imperatore i beni paterni confiscatigli durante la persecuzione e ottenne per la sua causa l’appoggio del Papa san Silvestro, che lo ordinò diacono tenendolo alcuni anni presso di sé e poi lo invio a Tortona come vescovo, dopo averlo consacrato personalmente il 24 settembre 325. Nobile, circondato dall’aureola del martirio, accompagnato dalla benedizione del Papa e dalla protezione dell’imperatore, sant’Innocenzo ritorno alla terra natale, inaugurando una nuova primavera per la Chiesa tortonese. Si prodigò per confermare nella fede i Cristiani e per guadagnare a Cristo i pagani.
Riorganizzò i fedeli della città e delle campagne e diede per la prima volta nella storia una definitiva fisionomia territoriale alla diocesi. Dopo avere fatto dono dei suoi beni di famiglia alla diocesi, si preoccupò di innalzare in Tortona i monumenti della fede cristiana, che finalmente
poteva uscire con dignità alla luce del sole; edificò una grande basilica sul colle che sovrasta la città, presumibilmente nell’area occupata oggi dallo stadio, dedicandola ai Santi Sisto e Lorenzo come omaggio ai martiri della Chiesa di Roma.
Questa chiesa giunse fino ai tempi moderni e andò distrutta soltanto nel 1609, dopo che fu inglobata nelle fortificazioni del castello e trasformata in polveriera dagli Spagnoli, a causa di un fulmine che diede fuoco alle polveri durante un violentissimo temporale; in essa trovò sepoltura il corpo dello stesso Innocenzo e servì da Cattedrale a partire dal X secolo.
Successivamente edificò la chiesa dei Dodici Apostoli, e quella in onore del primo martire Santo Stefano, le cui fondamenta sono state individuate nell’area cittadina ora compresa tra le vie Sada, Zenone e piazza Malaspina. Alle pendici del colle che sovrasta la città, Innocenzo edificò il battistero e la chiesa di Santa Maria, che alcuni storici hanno voluto identificare come una precedente chiesa mariana nell’area dell’attuale chiesa di Santa Maria Canale.
Per il battistero, di forma ottagonale, circondato da ventiquattro colonne di marmo, era necessario infatti un luogo ricco di acqua corrente, che permettesse il battesimo per immersione come era in uso nei primi secoli, e così il vescovo scelse una zona ricca di sorgenti e di rivi che scendevano dalle colline, ai piedi e non alla sommità del colle tortonese. Ancor’oggi la zona circostante la chiesa di Santa Maria Canale evoca nei nomi un’antica toponomastica legata all’acqua e ai suoi usi sia rituali che profani: la chiesa è popolarmente detta “La Canale”, la piazza sovrastante è indicata come “Il Lavello” a ricordo dei lavatoi pubblici di un tempo, mentre dove ora vi è l’istituto “Dante” sorgeva la chiesa di “San Giovanni in Piscina”.
Nella chiesa di Santa Maria Innocenzo amava spesso officiare le divine liturgie e lì vi compì un singolare prodigio: chiese che gli venissero portate delle braci, necessarie per i sacri riti, e una donna di fede, Senatrice non avendo dove riporle, in uno slancio di generosità si mise le braci in grembo e senza danno, né di sé né degli abiti, le recò al vescovo. Sull’area della sinagoga, che fece demolire, costruì la Cattedrale fuori Porta Ticinese presso il luogo del martirio del vescovo della sua infanzia san Giuliano, sull’area all’incrocio dell’attuale via Emilia con la strada per Castelnuovo.
Questo tempio funzionò fino al X secolo, quando venne abbandonato in seguito alle incursioni degli Ungari perché essendo fuori le mura non era più sicuro. Innocenzo aveva una sorella che prese, com’era costume dell’epoca lo stesso nome della madre, Innocenza; desiderosa di seguire anch’ella il Signore si consacrò alla preghiera e alla carità, vivendo in penitenza accanto al fratello vescovo. Per lei Innocenzo costruì un palazzo, sul colle dove ora sorge il convento dei Cappuccini, dotandolo di pozzi e acqua corrente, convogliandola attraverso un’ampia cisterna. Ad Innocenza si unirono presto altre donne pie che condividevano i suoi ideali e che formarono il nucleo di quello che alcuni secoli più tardi, quando la vita religiosa si era ormai affermata e organizzata nella Chiesa, diverrà il monastero di Sant’Eufemia.
La gloria più grande attribuita a Sant’Innocenzo dalla tradizione tortonese e quella del ritrovamento del corpo di San Marziano, il primo vescovo della città, evangelizzatore immediatamente a ridosso dell’età apostolica e martire nel 122. Il luogo della sua sepoltura, avvenuta in segreto ad opera del cavaliere romano san Secondo, che pochi giorni dopo incontrerà il martirio ad Asti, era rimasto ignoto per tre secoli.
Innocenzo lo cercò con cura negli antichi cimiteri e nelle necropoli lungo le vie consolari, ma tutto fu vano: nessuna tomba rivelava la sepoltura del santo Martire, finché intervenne il Cielo. Il prete Giacomo stava officiando l’eucaristia nella chiesa di Santa Maria quando gli fu rivelato in visione il luogo del sepolcro di San Marziano, non lungo le vie che collegavano la romana Dertona a mezz’Europa, secondo la consuetudine latina, ma a lato di un polveroso viottolo, che scendeva tra gli orti e le sterpaglie fino allo Scrivia, sotto le fronde di un sambuco.
Sant’Innocenzo corse subito sul luogo, portando con sé i diaconi Celso, che sarà poi suo biografo, e Gaudenzio; sotto le radici del sambuco vi era il sepolcro, povero e disadorno, coperto solo da una lastra di terracotta con l’iscrizione: “qui riposa il corpo di Marziano”. Allora radunò il clero e il popolo e al canto di inni e salmi aprirono la tomba, trovandovi le ossa del martire, la spugna con cui fu lavato il corpo e l’ampolla col sangue.
Pieno di gioia per quella grazia soprannaturale, Innocenzo sostituì la primitiva tomba con un più degno sepolcro in pietra e sopra vi fece edificare una grandiosa basilica, che fu terminata in un anno e divenne nei secoli successivi la potente abbazia di San Marziano, visitata da re, Papi e imperatori. Sant’Innocenzo morì il 17 aprile del 353, dopo aver retto per vent’otto anni la Chiesa tortonese e averla resa grande e florida, feconda di santità e salda nella fede, al punto che il suo successore, Sant’Esuperanzio, fu uno dei più accesi nemici dell’eresia ariana, accanto a Sant’Ambrogio e Sant’Eusebio.

(Autore: Don Maurizio Ceriani – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sant'Innocenzo di Tortona, pregate per noi.

*San Landerico - Abate (17 Aprile)

Figlio primogenito del conte di Hainaut, San Vincenzo Madelgario e di San Walde-trude (fr. Waudru), succedette nel 675 al padre nel governo delle due abbazie di Soignies e di Hautmont da lui fondate e mori un 17 aprile verso il 690.
La sua Vita, redatta nell'XI-XII sec, ricorda l'opposizione paterna al suo ingresso nel clero, ma questo episodio, nella Vita di San Vincenzo, è una trascrizione letterale di un passaggio simile della Vita di San Gallo di Clermont scritta da Gregorio di Tours (cf. A. Poncelet, in Anal. Boll, XII [1893], pp. 422-40).
Questo stesso testo ed alcuni altri (v. Chronicon Cameracense) lo dicono anche ve­scovo di Meaux (Madlensis) o di Metz (Mettensis).
L'ultima ipotesi è da escludersi del tutto, poiché nulla nelle liste episcopali ci permette di inserirvi L. E anche poco verosimile che sia stato vescovo di Meaux, salvo, forse, durante la sospensione di cui fu oggetto il vescovo Hildevertus.
Probabilmente egli fu vescovo regionale della sua provincia nativa (Montensis).
Fu oggetto di un culto locale a Mons, a Soignies e in diocesi di Tournai con festa il 17 aprile. Le sue reliquie erano venerate nella collegiata di Soignies.
L'iconografia lo rappresenta con il pastorale, la mitra e un libro su cui è posato un rasoio. Cosi si può vedere nella statuetta bronzea, opera di Stefan Gold, che figura, tra le altre, sul sepolcro dell'imperatore Massimiliano nella chiesa di Corte di Innsbruck. (Autore: Gerard Mathon – Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Iconografia
La supposta origine regale del Santo, ritenuto discendente degli antichi re brettoni, giustifica il fatto di vederlo spesso rappresentato con gli attributi propri di un sovrano; la corona, lo scettro (talvolta sostituito da un bastone di pellegrino), il pomo imperiale; così appare raffigurato ad es. in una statua del 1492 sull'altare maggiore del duomo di Coira, nella vasta pala dell'altare a lui dedicato nella stessa chiesa ed in altre opere d'arte conservate in chiese di Coira e nel Museo Retico della stessa città. In un sigillo della diocesi del 1282, appare seduto in trono.
Divenuto patrono dei fabbricanti di formaggi San Landerico ha in opere più tarde, quale specifico attributo, la spatola di legno usata da quegli artigiani ed anche una forma di formaggio.
Una scena, peraltro convenzionale, riferentesi alla sua supposta attività di fabbricante di formaggio, è il dipinto moderno di G. Manzoni, eseguito per la Confraternita dei Formaggiari nella chiesa di S. Bernardino alle Ossa di Milano, che lo rappresenta mentre, in abiti da lavoro, sulla soglia della sua piccola fabbrica, distribuisce pezzi di formaggio ai poveri.

(Autore: Angelo Maria Raggi – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Landerico, pregate per noi.

*Beata Maria Anna di Gesù (Navarro) - Mercedaria (17 Aprile)
Madrid, 21 gennaio 1565 - † 17 aprile 1624
Nacque a Madrid il 17 gennaio 1565, consacrata a Dio fin dalla sua fanciullezza, la Beata Marianna di Gesù, fu illuminata sulla via della perfezione dal padre mercedario Giovanni Battista Gonzales, dal 1598 fino alla sua morte.
Dopo anni di penitenza in stato di grave infermità che le impediva di entrare in convento come religiosa, finalmente fu ammessa come terziaria mercedaria.
Ricevette la sua professione il 20 maggio 1614, dedicandosi alle opere di carità verso gli infermi ed i bisognosi, si distinse inoltre per la sua umiltà e devozione alla Santissima Vergine e al Santissimo Sacramento.
Un giorno in contemplazione verso la passione del Signore, ricevette una corona di spine da Cristo il quale più volte gli parlò del tabernacolo. Insigne per la santità, morì il 17 aprile 1624, il suo corpo si conserva incorrotto nella chiesa del monastero Alarconense di Madrid.

Martirologio Romano: A Madrid in Spagna, Beata Marianna di Gesù Navarro de Guevara, vergine, che, superati i contrasti con il padre, vestì l’abito dell’Ordine della Beata Maria Vergine della Mercede, offrendo preghiere e penitenze per i poveri e gli oppressi.
Gli inizi della sua vita non furono facili, nacque a Madrid il 21 gennaio 1565, figlia di Ludovico Navarro di Guevara e Giovanna Romero; da giovinetta decise di consacrarsi a Dio, ma l’opposizione dei genitori la bloccò, perché decisi a farla sposare.
Per farla accettare il matrimonio, il padre la relegò in cucina sotto il controllo di una scontrosa serva; dopo la morte della madre, a questa umiliazione si aggiunsero i maltrattamenti della
matrigna.
Finalmente lasciata libera di scegliere il suo avvenire, cercò di entrare in vari Ordini religiosi, ma non venne accettata a causa di una infermità che le impediva di usare liberamente le mani.
Fu costretta così a rifugiarsi in una cameretta vicino alla chiesa dei Mercedari Scalzi, dove condusse una vita tutta tesa alla ricerca di una interiore spiritualità; poi si spostò in una stanzetta attigua alla chiesa stessa.
Trascorsero lunghi anni di preghiere e penitenze, finché fu accettata nell’Ordine della Mercede (fondato da San Pietro Nolasco nel 1218), l’abito le fu imposto il 4 aprile 1613 a 48 anni, dal Maestro Generale dei Mercedari Guimerand, che l’anno successivo ricevette anche la sua professione.
Quindi divenne religiosa mercedaria nella sua casetta, dove si dedicò alle opere di carità verso i bisognosi, visitando gli ammalati e facendosi conoscere da tutti per le sue virtù.
A lei si aggiunse come domestica Caterina di Cristo, che purtroppo con il suo carattere scontroso e bilioso, più che aiutarla e curarla, mise a dura prova la sua pazienza.
A 59 anni fu assalita da una grave forma di pleurite che la portò alla tomba il 17 aprile 1624.
Il cardinale Di Trejo, arcivescovo di Malaga, che per 14 anni ebbe familiarità con Maria Anna di Gesù, ne scrisse una lunga e particolareggiata relazione della vita e delle virtù.
Il suo corpo sia nel 1627, data della prima ricognizione, sia nelle successive del 1731, 1765, 1924 è rimasto incorrotto e odoroso. Papa Pio VI il 25 maggio 1784, la proclamò Beata nella basilica vaticana. La festa liturgica si celebra il 17 aprile.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beata Maria Anna di Gesù, pregate per noi.

*Santissimi Martiri di Persia (17 Aprile)

Ricordo di numerosi martiri, che, dopo la morte di San Simeone, furono uccisi in ogni regione della Persia perché cristiani, sempre per ordine di Sapore II; tra questi Sant'Usthazade, eunuco della sala reale, che era stato educatore del re Sapore, e che subì il martirio nella stanza di Artaserse, fratello dello stesso Sapore, nella provincia di Abiadena, mentre infuriava il primo impeto della persecuzione.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*San Pantagato di Vienne - Vescovo (17 Aprile)

475 - 540

Martirologio Romano: A Vienne in Burgundia, nell’odierna Francia, San Pantágato, vescovo.
San Pantágato è un vescovo di Vienne.
Nell’elenco dei vescovi della diocesi in alcune liste figura al ventesimo posto, mentre in altre al ventitreesimo.
Succede a San Donnino e precede Sant’Eschilo II.
Su di lui sappiamo ben poco.
San Pantágato si crede sia nato nel 475, in una famiglia nobile. Fu bene educato com’era consuetudine di quel tempo. É inoltre, ricordato quale diplomatico e cortigiano del re Clodoveo I.
San Pantágato lasciò la corte del re per studiare teologia e farsi sacerdote.
Si presume che dopo nel 536 sia stato nominato vescovo di Vienne.
San Pantágato partecipò al concilio che si svolse nel 538 ad Orléans. Alcuni storici fissano l’anno della sua morte nel 540.
É ricordato nel Martirologio romano e la sua festa è stata fissata nel giorno 17 aprile.

(Autore: Mauro Bonato – Fonte: Enciclopedia dei Santi)

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*Santi Pietro ed Ermogene - Martiri (17 Aprile)

Martirologio Romano: A Melitene nell’antica Armenia, Santi martiri Pietro, diacono, ed Ermogene, suo servo.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*San Roberto di La Chaise-Dieu - Abate (17 Aprile)

m. La-Chaise-Dieu, Francia, 17 aprile 1067
San Roberto, appartenente alla famiglia dei Turlande, o di La-Chaise-Dieu (Casa Dei), nacque nella regione francese dell’Alvernia all’inizio dell’XI secolo. Divenuto prete e canonico di San Giuliano a Brioude, fondò un’opera per i poveri.
Ma si sentiva chiamato alla più stretta vita monastica. Siamo nel XI secolo, ai tempi della riforma cluniacense.
Lui andò proprio a Cluny e poi andò pellegrino a Roma.
Al ritorno visse da eremita nella sua montuosa Alvernia. Raggiunto da numerosi compagni, fondò allora l'abbazia benedettina di La-Chaise-Dieu, di cui divenne primo abate. Morì nel 1067.

Etimologia: Roberto = splendente di gloria, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale, Modellino di La-Chaise-Dieu
Martirologio Romano: Nel monastero di Chaise-Dieu presso Clermont-Ferrand in Francia, San Roberto, abate, che radunò alcuni confratelli nello luogo stesso in cui viveva in solitudine, guadagnando molte anime al Signore con la parola della predicazione e con il suo esempio di vita.
San Roberto, abate benedettino di La-Chaise-Dieu (Casa Dei), era discendente non dai conti di Aurillac (Cantal) in Francia, come si era sempre ritenuto, bensì dalla famiglia dei Turlande e non sono noti esattamente né l’anno né il luogo della sua nascita, comunque presumibilmente all’inizio dell’XI secolo nella regione francese dell’Alvernia.
Sua madre, sorpresa dalle doglie del parto mentre si recava ad un castello vicino a casa, lo diede alla luce in mezzo ad un bosco.
Da tale incidente, qualcuno profetizzò che un giorno Roberto sarebbe diventato un celebre eremita. Si narra inoltre che la mamma, rimasta senza latte, avesse dato a balia il figlio a due
donne, dalle quali però egli si sarebbe rifiutato di allattarsi per la cattiva vita che conducevano.
Ancora in tenera età il santo fu affidato dai genitori agli ecclesiastici di Saint-Julien-de-Brioude, nell’Alta Loira, per impartirgli una formazione non solo scientifica, ma anche religiosa. Con così eccellenti maestri, Roberto trascorse una giovinezza innocente e virtuosa. Mostrando di possedere ottime qualità fu ammesso alla tonsura e quindi nominato canonico della chiesa di San Giuliano.
Sovente trascorreva la notte in preghiera e quotidianamente si prendeva cura dei poveri e dei malati, sino a lavare loro le piaghe.
A contatto con lui parecchi furono miracolosamente guariti. Questa tenerezza nei confronti degli sventurati anziché diminuire crebbe col passare degli anni. Per dedicarsi maggiormente e più facilmente ad essi fece edificare un ospedale a Brioude.
Ricevuta poi l’ordinazione presbiterale, Roberto prese a celebrare ogni giorno la santa Messa manifestando grande devozione ed a convertire i peccatori con una continua e ardente predicazione della Parola di Dio. Ciononostante, nella sua immensa umiltà, egli riteneva se stesso un servo inutile.
L’amore della contemplazione gli ispirò ben presto il desiderio di abbandonare definitivamente il mondo per donarsi a Dio nella solitudine. A quel tempo godevano grande reputazione in Europa i monaci di Cluny, governati dall’abate Sant’Ugo, in quanto vivevano conformi al rigore della primitiva regola benedettina. In compagnia di un suo amico, Roberto tentò segretamente di raggiungerli, ma non appena si diffuse tra il popolo la notizia della fuga, fu rincorso e costretto a ritornare a Brioude.
Pieno di vergogna per essere stato scoperto, fu colpito da un così grande dolore che si ammalò. Ristabilitosi, cercò di praticare nel mondo la vita monastica, ma non mancarono innumerevoli difficoltà nell’attuare tale progetto. Non gli restò dunque che recarsi in pellegrinaggio a Roma sulle tombe degli apostoli, per chiedere a Dio la grazia che gli rendesse nota la sua volontà.
Al ritorno, un giorno un soldato di nome Stefano cercò consiglio da lui riguardo a come avrebbe potuto ottenere la remissione delle proprie colpe. Roberto gli consigliò di rinunciare al mondo e di arruolarsi nella milizia dei servitori di Gesù Cristo.
Il soldato replicò che avrebbe fatto volentieri un tale sacrificio solo in sua compagnia. Colpito dalla risposta, il santo rivelò a Stefano, quasi fosse stato un angelo inviatogli dal cielo, il desiderio che anch’egli provava di servire Dio nella solitudine. Senza indugiare oltre, Stefano si recò in pellegrinaggio al Santuario di Nostra Signora du Puy-en-Velay nell’Alta Loira, per implorare dalla Madre di Dio una benedizione sull’ardua intrapresa che stavano per iniziare.
Nel viaggio di ritorno, egli scoprì fra le montagne, a venti chilometri da Brioude, le rovine di una chiesa abbandonata e, ritenendo molto adatto quel luogo, ne parlò a Roberto.
Nel frattempo Stefano guadagnò a Dio un altro soldato, Dalmazio, che Roberto associò con gioia alla loro vita. Dopo averli messi alla prova per qualche mese, prese infine con loro la strada dell’eremo lasciando da parte qualsiasi bene terreno. Gli abitanti del luogo nella loro rozzezza si dimostrarono ostili ai nuovi vicini e, anziché assisterli fornendo loro quanto occorreva per vivere, li ingiuriarono e minacciarono, ritenendoli forse dei fannulloni.
I tre non si persero comunque d’animo ed in mezzo alle rovine realizzarono un oratorio in cui radunarsi per la preghiera, attorno al quale costruirono delle piccole celle. Stefano e Dalmazio
attendevano ai lavori manuali e alla coltivazione della terra per la sussistenza della comunità, mentre Roberto si dava allo studio ed all’istruzione dei novizi che chiedevano di poter abbracciare quello stile di vita.
Oltre alla preghiera comune, essi consumavano anche insieme il cibo frugale. Senza preoccuparsi eccessivamente del futuro, erano soliti distribuire ai poveri ed ai viandanti una buona parte dei raccolti e dei viveri. Un giorno Roberto donò ad un bisognoso tutto il pane avanzato dal giorno precedente e Dalmazio non nascose il suo disappunto ad uno dei due canonici del Puy, che avevano venduto quella terra ai tre eremiti: entro sera costui mandò loro tre cavalli carichi di ogni ben di Dio.
Si diffuse ben presto nella regione la fama di santità di quei solitari: l’avversione degli abitanti del luogo piano piano cessò e addirittura diversi giovani ed ecclesiastici chiesero di unirsi al gruppo per consacrare a Dio il resto della loro vita. Non era possibile infatti sottrarsi al fascino dell’esempio di Roberto, rimanere insensibili alle sue esortazioni, non riconoscere l’azione divina nei prodigi che operava, benché egli per modestia li attribuisse all’intercessione dei santi Agricola e Vitale, titolari dell’oratorio.
Il numero degli eremiti divenne considerevole e si rese perciò necessaria l’edificazione di un monastero, volto a favorire la vita comunitaria ed a garantire una buona formazione degli aspiranti. Generosi benefattori contribuirono alla realizzazione dell’opera e fu così possibile a Roberto nel 1150 fondare l’abbazia de la Chaise-Dieu.
Il vescovo di Clermont, Rencone, chiese al pontefice San Leone IX la necessaria autorizzazione all’erezione canonica della nuova abbazia, mentre Roberto si recò alla corte del re Enrico I di Francia per far ratificare le donazioni ricevute. Ritornati entrambi dalle loro missioni, il vescovo officiò la dedicazione del monastero, la vestizione dei primi monaci ed elesse come loro abate Roberto, secondo le disposizioni dello stesso Papa.
Alle ormai tre centinaia di monaci Roberto impose la regola benedettina. Tuttavia egli non limitò il suo zelo all’ambito del monastero, ma si adoperò per la riapertura al culto di oltre una cinquanta chiese della regione rimaste danneggiate dalle guerre. Dio rese noto anticipatamente al santo il giorno della sua morte.
Prima di mettersi a letto, Roberto volle infatti celebrare l’ultima Messa a costo di farsi sostenere dinnanzi all’altare, dopodichè convocò i suoi discepoli, li abbracciò ad uno ad uno e li esortò ad impegnarsi seriamente per la propria santificazione.
Morì il 17 aprile 1067. Al momento del suo trapasso, un monaco vide l’anima di Roberto salire al cielo sottoforma di globo di fuoco. Essendo numerosi i miracoli verificatisi sulla sua tomba, nel 1351 il pontefice avignonese Clemente VI, già abate di La-Chaise-Dieu, decise finalmente di canonizzare Roberto, meritandogli così di comparire ancora oggi sul Martyrologium Romanum nell’anniversario della sua nascita al Cielo.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Roberto di La Chaise-Dieu, pregate per noi.

*San Roberto di Molesme - Abate di Citeaux (17 Aprile)
Troyes, Francia, 1024 circa – Molesme, Francia, 21 marzo 1111
San Roberto di Molesme fu come il chicco di frumento che deve morire per portare frutto e la sua “morte” avvenne per mano dei suoi stessi confratelli. Fondata Molesme infatti, si trovò circondato da numerosi fratelli, i quali non nutrivano più la sua stessa aspirazione alla rinuncia alle ricchezze e al prestigio.
Tentò allora di dar vita a una nuova fondazione: lo fece a Citeaux con la collaborazione dell’inglese Santo Stefano Harding, ma i confratelli invidiosi lo fecero ritornare a Molesme, senza tuttavia consentirgli di realizzare le necessarie riforme.
Forse fu proprio il suo sacrificio, analogo a quello di Abramo, che permise a Stefano Harding prima e poi soprattutto al grande San Bernardo di avviare e consolidare l’esperienza riformatrice di Citeaux, con la sua vita povera e austera, in una rigorosa fedeltà alla regola benedettina, di cui si riprendeva anche l’invito a mantenersi col lavoro delle proprie mani.

Etimologia: Roberto = splendente di gloria, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Nel monastero di Molesme in Francia, San Roberto, abate, che, alla ricerca di una vita monastica più semplice e austera, già instancabile fondatore e rettore di cenobi, nonché guida di eremiti e insigne riformatore della disciplina regolare, fondò un monastero cistercense, del quale fu primo abate e, ritornato poi a Molesme in qualità di abate, qui riposò in pace.
San Roberto di Molesme e Santo Stefano Harding, la cui fama fu oscurata dal celebre San Bernardo, furono in realtà proprio loro gli iniziatori presso Citeaux di uno dei più grandi e vivai ordini religiosi della storia della Chiesa, i Cistercensi (Citeaux deriva infatti dal latino Cistercium).
San Roberto, patriarca dei Cistercensi, nacque verso il 1024 nella regione francese della Champagne, forse a Troyes o nei dintorni di tale città, da ricchi e nobili genitori. Desiderando ottenere da Dio la remissione delle loro quotidiane fragilità, essi erano soliti elargire ai poveri abbondanti elemosine.
Non molto tempo prima della nascita del santo, a sua madre Ermengarda apparve in sogno la Santa Vergine, che le offrì un anello d’oro affermando: “Io voglio per fidanzato il figlio che tu hai concepito: ecco l’anello del contratto”. I genitori furono allora solleciti all’educazione del figlio ed all’età di quindici anni lo affidarono alle cure dei benedettini di Moutier-la-Celle, nei pressi di Troyes, ove costituì un modello per gli altri novizi e l’emulo dei più ferventi religiosi. Anima candida e affettuosa, spiccante per la sua mirabile docilità agli impulsi della grazia, Roberto era più incline alla soavità della contemplazione che alle attività lavorative.
L’assidua meditazione di Gesù crocifisso lo spingeva a praticare prolungati digiuni e ad intrattenersi con Dio giorno e notte, al fine di mortificare la sua carne mortale. I monaci suoi
confratelli, pieni di stima nei suoi confronti poiché pio e fedele osservante della regola, lo nominarono appena dopo il noviziato quale loro priore.
Qualche anno dopo i monaci di Saint-Michel-de-Tonnerre, nel territorio della diocesi di Langres (Haute-Marne), lo elessero loro abate, tanto era nota la sua abilità nell’arte del governo. Nel nuovo ambiente, il santo tentò di riportare i monaci alla piena osservanza della regola, scontrandosi però con l’irrigidimento e l’ostinazione di molti suoi sottoposti. Constatando con tristezza l’inutilità dei suoi sforzi, infine desistette e lasciò il monastero. Non lontano da Tonnerre, nel bosco di Collan vivevano sette eremiti di varia provenienza, riunitisi per praticare una vita comunitaria dedita alla penitenza. Non avendo però ancora un superiore ed essendo a conoscenza della fama di santità di cui godeva Roberto, lo invitarono ad occupare tale ruolo nella loro comunità. Scorgendo in essi un’ottima disposizione a seguire Gesù povero e sofferente, il santo si lasciò convincere dalle loro insistenze ed accettò l’invito, ma il nuovo priore di Saint-Michel-de-Tonnerre vi si oppose.
Considerando tale preferenza un vero e proprio affronto alla propria comunità, egli spinse i monaci a trattenere con loro Roberto promettendogli maggiori deferenza ed ubbidienza.
Dimostrando però ben presto di non essere minimamente intenzionati a correggere il loro comportamento, Roberto finì per abbandonarli nuovamente, per fare ritorno al suo primo monastero di Moutier-la-Celle. Libero da impegni di governo, nella calma e nella solitudine del chiostro, poté così gustare al meglio le delizie della contemplazione e comprendere pienamente i disegni che Dio aveva su di lui.
L’ubbidienza lo costrinse tuttavia ben presto a trasferirsi nel Priorato di Saint-Ayoul, alle dipendenze di Moutier-le-Celle, ma gli eremiti di Collan tentarono nuovamente di farsi assegnare Roberto quale superiore. Questa volta si rivolsero direttamente addirittura all’allora pontefice Alessandro II, dal quale ottennero dopo lunghe fatiche l’approvazione della loro comunità e la nomina di Roberto a nuovo superiore.
Questi accettò con gioia il nuovo incarico e venne ricevuto come un inviato del Cielo, ma essendo la solitudine di Collan troppo malsana, preferì condusse i tredici eremiti nella foresta di Moleste, nella Còte d’Or. Qui nel 1075, presso un piccolo fiume sul declivio di una collina, Roberto fece costruire delle piccole celle con tronchi d’albero e rami, nonché un oratorio dedicato alla Santissima Trinità. Roberto, eletto abate, scelse per i suoi monaci la regola benedettina ed essi presero a servire Dio con ardore incredibile: nella fame e nella sete, nel gelo invernale e nella calura estiva, sempre comunque sostenuti dalla speranza di raccogliere un giorno qualche frutto.
Il loro stile di vita povero e mortificato destò ben presto l’ammirazione delle popolazioni dei dintorni ed il vescovo di Troyes, di passaggio nelle vicinanze, volle far visita al nuovo monastero. Rimase perciò sorpreso ed allo stesso tempo edificato dallo spirito di penitenza di quei religiosi e procurò loro in dono almeno gli oggetti più indispensabili alla vita comune. Diversi signori dei castelli vicini non tardarono ad imitarne il generoso esempio.
Le elemosine e le donazioni, grande merito per gli offerenti, si rivelarono a poco a poco pericolose per coloro che ne percepivano i frutti: non tardarono infatti a distruggere nei monaci l’amore alla povertà ed alla mortificazione, cioè i principali sostegni di ogni vita religiosa. L’elevato numero di aspiranti costituì un pretesto per far ingrandire la costruzione e dare un nuovo assetto al monastero.
I religiosi, nonostante le raccomandazioni dell’abate, non vollero più dedicarsi al lavoro manuale poiché la generosità dei fedeli aveva ormai supplito abbondantemente e colmati i loro bisogni. Ormai apparentemente impossibilitato a riportare la comunità monastica all’osservanza integrale della regola, Roberto preferì abbandonarla con i migliori monaci tra cui il priore Alberto e Stefano Harding per ritirarsi in solitudine, ma poi per ispirazione divina capì che sarebbe stato meglio non scoraggiarsi e piuttosto santificarsi lavorando attivamente per la salvezza delle anime dei suoi monaci.
La discordia s’impossessò però della comunità e le elemosine dei fedeli iniziarono a scarseggiare. I monaci di Molesme si pentirono allora di aver rattristato il loro fondatore e padre e lo supplicarono di ritornare, promettendogli un’assoluta sottomissione ai suoi ordini. Scrissero anche al Papa, dal quale ottennero un Breve che imponeva a Roberto di riprendere il governo dell’abbazia ed affidava al vescovo di Langres la pronta esecuzione dell’ordine. Roberto, sempre alla ricerca della volontà di Dio per poterla seguire, fece ritorno a Molesme senza chiedere scuse per il passato od esigere promesse per il futuro. Per un anno i monaci sopportarono pazientemente il santo abate applicava ai loro mali, ma questa buona disposizione non durò. Essi speravano infatti che con Roberto sarebbero tornate affluire le elemosine.
Nuovamente il santo preferì ritirarsi a vita solitaria, questa volta in compagnia di Alberico, Stefano ed altri due monaci che non tolleravano la larghezza con cui la regola benedettina veniva interpretata ed applicata. Nelle solitudine di Vinic concepirono allora e sperimentarono in prima persona un piano di riforma dell’ordine monastico occidentale, volto a ristabilire l’osservanza della primitiva regola di San Benedetto in tutto il suo rigore.
Ma ancora una volta intervenne il vescovo di Langres minacciando di scomunica i fuggitivi. Constatando però che la riforma di Molesme continuava a rimanere infruttuosa, Roberto ed i suoi compagni preferirono edificare una nuova abbazia in cui poter osservare la regola benedettina senza dispensa alcuna.
Dopo lunghe riflessioni e preghiere, desiderando prevenire ogni difficoltà assicurandosi l’autorizzazione della Santa Sede, all’inizio del 1098 Roberto andò a trovare Ugo, arcivescovo di Lione e legato di Urbano II in Francia, ed ottenne il consenso ad intraprendere la sua grandiosa opera. A Molesme il santo presentò il suo progetto ai monaci e, dopo averli sciolti dall’ubbidienza promessagli, lasciò l’abbazia con ventuno confratelli, portando con sé solamente un libro degli uffici divini ed il necessario per la celebrazione dell’Eucaristia.
Il luogo prescelto per la fondazione dell’abbazia fu Cìteaux, nel territorio della diocesi di Chalon-sur-Saóne. Il terreno paludoso, facente parte di una foresta, fu donato dal conte di Beaune. Roberto fu subito eletto abate all’unanimità dai confratelli e ricevette il bastone pastorale dalle mani del vescovo. Dinnanzi a lui i monaci rinnovarono la loro professione solenne e s’impegnarono alla stabilità del luogo ed all’osservanza della regola senza eventuali addolcimenti. Tale cerimonia ebbe luogo il 21 marzo 1098, domenica delle Palme.
I monaci di Molesme fecero però di tutto ancora una volta per riavere il loro fondatore: ricorsero quindi ad Urbano II, il quale delegò le trattative all’arcivescovo di Lione.
Costui, ritenendo ormai la neonata comunità di Cìteaux già ben consolidata, ordinò a Roberto di ritornare a Molesme. Il santo obbedì, non prima di aver designato quale suo successore come abate di Cìteaux Alberico e quale priore Stefano Harding. L’abbazia di Molesme accettò la rigorosa osservanza della regola benedettina e prosperò sotto la guida di Roberto, che la guidò per il resto della sua vita.
Qui morì il 21 marzo 1111 e Sant’Alberico gli successe nella carica di abate, ottenendo durante il suo mandato la conferma dell’Ordine da parte del nuovo pontefice Pasquale II.
Riconoscendo i numerosi miracoli avvenuti sulla tomba di Roberto, nel 1222 Papa Onorio III lo canonizzò iscrivendolo nell’albo dei Santi ed ancora oggi compare la sua memoria sul Martyrologium Romanum in data 17 aprile.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Roberto di Molesme, pregate per noi.

*Beato Rodolfo di Berna - Martire (17 Aprile)

m. 1294
Etimologia:
Rodolfo = lupo glorioso, dall'antico tedesco
Emblema: Palma
La Berner Chronik ci informa che nell´anno 1294 un ignobile delitto fu perpetrato a Berna da alcuni membri della comunità ebraica, i quali attirarono in una cava un fanciullo cristiano e, per
parodiare la passione di Cristo, lo crocifissero lasciandolo morire sulla croce.
Anche se tenuto nascosto dai suo autori, il crimine fu ben presto scoperto (da un punto di vista critico si deve rilevare che la responsabilità degli ebrei nella morte di Rodolfo è tutt´altro che provata.
L’ attribuzione ad essi del delitto fu dovuta sicuramente alla calunnia di infanticidi rituali largamente diffusa contro di loro)
Considerato come martire da parte del Consiglio della città e dal clero locale, il fanciullo fu sepolto con grande onore nella chiesa madre di Berna, vicino all´altare della Santa Croce.
In seguito quest´altare fu dal popolo chiamato “altare di San Rodolfo”.
Nel 1485 la chiesa fu demolita, venne poi ricostruita più ampia e bella.
Il corpo del presunto martire fu allora sistemato in una cassa ed esposto alla venerazione dei fedeli sull´altare della Santa Croce.
Nel 1528, i calvinisti saccheggiarono la chiesa e distrussero l´altare; le reliquie di Rodolfo, tratte fuori dalla cassa, furono sotterrate senza alcun rispetto e non furono più trovate.
Non si è avuta alcuna approvazione di culto per questo beato e il suo nome non compare nel Martirologio Romano.
Un Ufficio in suo onore era stato inserito nel Proprio di Basilea, ma nel 1908 è stato radiato.

(Autore: Fr. Rodolfo Bianciotti – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Rodolfo di Berna, pregate per noi.

*Santi Simeone Bar Sabba’e, Usthazade e Compagni - Martiri in Persia (17 aprile)
Persia, 341-344
San Simeone, detto Bar Sabba’e ossia «figlio del follatore», fu nominato vescovo (catholicos) di Seleucia-Ctesifonte in Persia, in seguito alla deposizione del vescovo precedente nel 324.
Quando nel 340 il re persiano Sapore II riaccese le feroci persecuzioni contro i cristiani, non esitò ad imporre loro il pagamento raddoppiato delle tasse e a decretare la chiusura di tutti gli edifici di culto.
Constatando la povertà della maggior parte della gente, Simeone rifiutò di raccogliere il denaro richiesto e venne perciò arrestato. Condotto poi dinnanzi al re, non volle prostrarsi al suo cospetto, ne adorare il dio sole, e ciò costituì per le autorità un pretesto per imprigionarlo con un centinaio di persone.
Simeone riuscì a riguadagnare alla fede cristiana anche Usthazade, eunuco della sala reale nonché educatore del sovrano stesso, che fu poi martirizzato. Simeone restò a lungo incarcerato con oltre cento compagni, vescovi, presbiteri e membri di diversi ordini religiosi e infine fu decapitato per ultimo dopo aver visto sgozzati davanti ai suoi occhi tutti i suoi compagni. (Avvenire)

Martirologio Romano: In Persia, passione di San Simeone bar Sabas, vescovo di Seleucia e Ctesifonte: arrestato e incatenato per ordine del re di Persia Sabor II per essersi rifiutato di adorare il sole e aver dato con libertà e fermezza testimonianza della sua fede in Gesù Cristo Signore, fu dapprima tenuto a marcire per qualche tempo in una prigione insieme a una folla di oltre cento compagni tra vescovi, sacerdoti e chierici di ordini diversi; poi, nel venerdì della Passione del Signore, dopo che già tutti erano stati sgozzati con la spada sotto gli occhi di Simeone che esortava frattanto ciascuno di loro con coraggio, fu infine anch’egli decapitato.
Parimenti si commemorano i moltissimi martiri, che, dopo la morte di San Simeone, in tutta la Persia morirono per il nome di cristo trafitti con la spada per ordine del medesimo re Sabor II; tra questi sant’Ustazhad che, eunuco di corte e precettore dello stesso Sabor, subì il martirio nella reggia di Artaserse, fratello di Sabor, alle prime avvisaglie delle persecuzioni nella provincia dell’Adiabene, nel territorio dell’odierno Iraq.
San Simeone, detto Bar Sabba’e ossia “figlio del follatore”, fu nominato vescovo (catholicos) di Seleucia-Ctesifonte in Persia, in seguito alla deposizione del vescovo precedente nel 324.
Ben presto Simeone fu però retrocesso al ruolo di ausiliario, a causa della mancata conferma della sentenza di deposizione, e non ci è noto quando sia potuto effettivamente diventare vescovo titolare. Quando nel 340 il re persiano Sapore II riaccese le feroci persecuzioni contro i cristiani, non esitò ad imporre loro il pagamento raddoppiato delle tasse ed a decretare la chiusura di tutti gli edifici di culto.
Constatando la povertà della maggior parte della gente, Simeone rifiutò di raccogliere il denaro richiesto e venne perciò arrestato.
Condotto poi dinnanzi al re, non volle prostrarsi al suo cospetto, ne adorare il dio sole, e ciò costituì per le autorità un pretesto per imprigionarlo con un centinaio di persone. Simeone riuscì a riguadagnare alla fede cristiana anche Usthazade, eunuco della sala reale nonché educatore del sovrano stesso, che poi patì anch’egli il martirio.
Simeone restò a lungo incarcerato con oltre cento compagni, vescovi, presbiteri e membri di diversi ordini religiosi ed infine fu decapitato per ultimo dopo aver visto sgozzati davanti ai suoi occhi tutti i suoi compagni di fede e di prigionia, che egli aveva rincuorato con grande forza d’animo.
Nelle precedenti edizioni del Martyrologium Romanum erano citati esplicitamente i nomi di alcuni dei compagni di martirio di Simeone: i sacerdoti Abdhaykla e Hananya, nonché l’ufficiale regio Pusayk. Simeone è posto quale capogruppo nel Breviarium siriano del 412, nonché dal nuovo Martirologio Romano che pone la loro memoria al 17 aprile.
Sempre in tale data il calendario cattolico dedica un’apposita citazione al suddetto Usthazade, che con altri numerosi cristiani di ogni regione della Persia subì il martirio sempre per ordine del re Sapore II. Tale sorte tocco al santo precettore nella stanza di Artaserse, fratello dello stesso sovrano, nella provincia di Abiadena, mentre infuriava il primo impeto della persecuzione.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Simeone Bar Sabba’e, Usthazade e Compagni, pregate per noi.

*San Wando (Vandone) - Abate (17 Aprile)
Nativo della regione del Vimeu in Francia, fu educato sin da ragazzo presso l’abbazia di Saint-Wandrille a Fontenelle; come diacono accompagnò in Frisia San Vulfran l’ex vescovo di Sens, che si era ritirato a Fontenelle, ciò avvenne verso il 690; la missione ebbe poco successo, ma Wando poté compiere nell’occasione un miracolo, scacciò il diavolo che tentava di sviare la barca su cui erano, verso le paludi della Frisia, antica regione nordica divisa fra la Germania e l’Olanda.
Rientrato dopo questa esperienza missionaria, a Fontenelle, fece la sua professione nel 696, vivendo per circa 20 anni nel silenzio dell’abbazia.
Verso il 714 fu coinvolto, suo malgrado, nelle vicende politiche che seguirono la morte di Pipino d’Heristal, che vide contrapposti per la carica di “maestro di palazzo” d’Austrasia, Raginfredo e Carlo Martello; nel 716 per ordine di Raginfredo fu deposto l’abate Benigno e nominato al suo posto Wando, che nel 719, dopo la vittoria di Carlo Martello, fu a sua volta deposto e reintegrato Benigno.
Wando fu inviato in esilio nel monastero di San Servazio di Maastricht dove restò per 28 anni. Ma la politica si riaffacciò di nuovo nella sua vita, salito al trono Pipino il Breve (714-768) figlio di Carlo Martello, nel 747 richiamò Wando già in veneranda età, rimettendolo di nuovo a capo dell’abbazia di Fontenelle.
Lasciò la guida spirituale al priore Anstrulfo e si dedicò alle opere assistenziali ed ai libri, arricchì in modo considerevole la biblioteca ed il tesoro liturgico dell’abbazia; costruì una chiesa per onorare le reliquie di San Servazio, che aveva portato con sé dall’esilio di Maastricht e che consacrò nel 752; in questo periodo accolse a Fontenelle, Teodorico l’ultimo re merovingio, deposto dal carolingio Pipino.
Ormai novantenne e divenuto cieco, il Santo abate concluse la sua tormentata esistenza il 17 aprile 754. Il nome Wando o Vandone non ha avuto molto seguito, al contrario il femminile Wanda o Vanda è molto diffuso, perché portato da una leggendaria eroina polacca, figlia del fondatore di Cracovia.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*Altri Santi del giorno (17 Aprile)

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